Omotransfobia: la coscienza innanzitutto, intervista a Marco Siino
A CURA DI ALESSANDRA PERRICONE (Cvx Palermo)
Marco e io ci conoscevamo dai tempi del Meg, benché per motivi di età con ruoli diversi, quando ci ritrovammo qualche anno fa in occasione del Sinodo della famiglia. La nostra comunità, insieme a quella di Reggio Calabria, aveva proposto un incontro di riflessione, preghiera e condivisione sulle nuove declinazioni del tema. In seguito saremmo entrati a far parte del Comitato organizzatore della Veglia per il superamento dell’omotransfobia.
Lo scambio che segue è il risultato, sicuramente parziale, di una chiacchierata personale e insieme generosa che mi ha ricordato, e a tratti ce n’è bisogno, i pilastri della mia giovinezza. Chissà che qualcun altro, leggendolo, non si lasci trasportare dalle stesse emozioni per vivere le chiamate del nostro tempo.
Partiamo da te: in che modo, se sì, la tua storia familiare e di associazionismo ha contribuito alla tua crescita?
Con un padre che stava per farsi gesuita e due genitori che da un certo momento in poi (lavoro, figli piccoli) hanno vissuto l’essere membri delle allora Congregazioni Mariane come l’unica vera esperienza di socialità. Ho respirato questo mondo fin da subito. Poi c’è stato il Meg, dai 12 ai 24 anni con qualche interruzione, ma continuato a Padova durante gli studi universitari da dove è anche partito l’impianto di una nuova comunità per adolescenti a Mestre.
Volendo individuare un ruolo della spiritualità ignaziana nella mia crescita direi che mi ha insegnato soprattutto a fare tre cose: centrarmi, riconoscere sempre il primato della coscienza e dare importanza alle scienze umane, attraverso la conoscenza e l’informazione.
Com’è stato l’incontro tra fede e sessualità?
Non c’è stato nessun incontro… Diciamo che mi sentivo come Dr. Jekyll e Mr. Hyde… Essere una persona gay negli anni ’80/90 era di fatto un’esperienza non prevista né in famiglia né in comunità, dove la sola sessualità che si potesse immaginare era quella generativa e unitiva tra sessi opposti. Percepivo quindi la mia come peccato. Quando, a 16 anni, quella sessualità (per quanto tacitata e repressa) ha fatto irruzione nella mia vita, l’unico spazio nel quale nominarla è stata la confessione. Ma posso dire che il Meg non è stata, nel mio vissuto, una comunità giudicante. Solo a 23 anni però, cioè dopo 7 anni di non detto, ho fatto pace con me stesso.
Fu durante un corso di Esercizi Spirituali: attraverso il silenzio e la meditazione mi sono riconciliato con quanto avevo fino ad allora represso. Probabilmente fino ad allora avevo vissuto il primato del servizio, e dunque della sfera esterna, che era alla base della mia formazione, anche come un rifugio dove l’affettività, per tutte le risposte che non trovavo, era messa tra parentesi.
Arriviamo a oggi: come definiresti il ruolo della spiritualità ignaziana nel tuo presente?
Gli Esercizi Spirituali mi hanno insegnato un modus operandi, un know-how, e il Meg mi ha dato un respiro eucaristico. Ovvero il segno del primato dell’amore, come dono reciproco su cui scommettere la vita. E poi ho già detto del primato della coscienza, ma potrei citare altri pilastri della spiritualità ignaziana. Prima di tutto l’esperienza dell’accompagnamento spirituale e del discernimento (un gesuita in particolare è stato fondamentale dopo il doloroso coming out in famiglia). Oppure la ricerca della conoscenza approfondita, soprattutto attraverso gli studi biblici svolti con alcuni gesuiti durante gli anni dell’Università. Una ricerca quasi spoglia, che conduce all’essenziale. Un approccio, quest’ultimo, che ritrovo in tanti Lgbt e che è un approccio ecumenico, basato cioè sul ripartire dal messaggio cristiano, prima che dalle costruzioni più o meno utili che ne derivano. Insomma, alla fine la domanda di fondo è: cosa ci sto a fare io con Cristo e con la Chiesa?
Hai parlato di ecumenismo, che so essere parte integrante del tuo associazionismo Lgbt. Che cosa ci dici allora di te in quanto attivista?
Faccio parte del circolo “Ali d’aquila”, un gruppo che nasce ecumenico come tutta la storia del movimento cattolico Lgbt soprattutto dagli anni ’80 in poi. Gruppi cacciati dalla Chiesa cattolica trovarono accoglienza presso altre Chiese sorelle, unite dal Vangelo. Cattolici e ortodossi si sono quindi ritrovati con anglicani, battisti, metodisti, valdesi, luterani, a porsi le domande essenziali, declinando in chiave cristiana il pluralismo. L’idea è di non viaggiare soli né di limitarsi a essere una nicchia rivolta all’interno con il solo obiettivo (pur esistente) di offrire rifugio e protezione, ma di scommettere tutti sull’essere Chiesa attraverso le proprie comunità di fede. Da questo nasce il lavoro concreto, per esempio, del Coordinamento ecumenico per il superamento dell’omotransfobia che opera in Sicilia occidentale e che, in alcuni casi, prevede anche percorsi di accompagnamento. Qui la collaborazione con la Cvx ha dato il contributo più ricco, fecondo e approfondito.
Veniamo ora al Ddl Zan di cui tanto si parla. Senza entrare in particolari giuridici puoi dirci il perché di questa legge?
Il primo motivo è che in Italia abbiamo il maggior numero di vittime trans ma manchiamo appunto di una legislazione di contrasto alla discriminazione per identità di genere, legge che esiste già in alcuni Paesi europei ma non in altri (come, ad esempio, la Polonia) dove quindi gli Lgbt sono persone a rischio. Il Ddl Zan non presenta nulla di nuovo rispetto al concetto di tutela delle persone, ma apre un capitolo rispetto alle persone Lgbt, e non certo per mandare gente in galera (sono anzi previste misure di giustizia riparativa), ma per far scattare il meccanismo repressivo e delle indagini se ti rompono la macchina o ti minacciano. Un altro motivo è il minimo intervento che la legge prevede nelle scuole, con la celebrazione del 17 maggio come giornata ormai riconosciuta in tutto il mondo per promuovere l’attenzione al contrasto dell’omolesbobitransfobia che sappiamo nascere nell’adolescenza, quando un modello tossico di maschilità viene spesso dato per scontato e genera il relativo bullismo, peraltro già oggetto di programmi ministeriali.
A Palermo, per esempio, un liceo partecipa all’organizzazione della veglia per il superamento dell’omotransfobia proprio perché consapevole di questi rischi. Un terzo motivo è l’importanza della presa in carico da parte dello Stato delle vittime di violenza.
Entriamo nel personale: tu come vivi il dibattito nella chiesa su questo decreto?
Percepisco e percepiamo in tanti una contraddizione. In effetti è buffo dirlo a questa rivista online, che ha ritenuto coraggiosamente di prendere la parola sul tema ed esplorare strade nuove. Ma davvero con la questione della libertà di parola questa legge non ha quasi nulla a che fare, perché serve invece soprattutto a tutelare le persone trans da atti di violenza e a istituire centri antiviolenza. Non c’è nessun attacco alla libertà di parola che, tuttavia, è continuamente ripreso dalla Cei, dove si passa dalle chiusure al silenzio totale, di fatto negando un dibattito sereno. Ma, e qui sta l’enorme contraddizione, se chiediamo la libertà di parola all’esterno, diamola anzitutto all’interno!
E poi che cosa è davvero in gioco, qual è l’essenziale? Sono le esperienze concrete di discriminazione e di violenza nelle famiglie e nella società, e dunque questo stride col fatto che a livello ecclesiale ci si concentri su dati secondari come la libertà di parola e la definizione di identità di genere, fattispecie che si ritrova già in Direttive europee e nell’ordinamento italiano. Insomma, si perde di vista l’obiettivo della legge, ma in nome di cosa?
Un aspetto che in quest’ambito è stato particolarmente sottolineato dalla stampa e dai social riguarda le benedizioni. Tu che ne pensi?
Attingo a esperienze mie e non solo per dire che quando vivi una relazione di coppia sapendo che, se autentica, è feconda di per sé anche se non biologicamente, senti il desiderio di condividerla in pubblico. Emerge qui l’importanza del dato ecclesiale, perché se la tua vita è scommessa sull’amore sai già di avere la benedizione di Dio. Ma perché, all’interno della propria comunità, una coppia non etero non può portare i suoi frutti in quanto coppia? O perché non riconoscere i segni della grazia di Dio anche in questa forma di coppia? Il no della Chiesa ha generato una sensazione di vuoto, una prima reazione di spaesamento, perché la tua condizione ancora una volta non è prevista, e questo genera delusione e a volte paura (la Chiesa cattolica è grande, ci sono anche apparati repressivi).
Il cammino ignaziano però a me ha da sempre insegnato che non c’è nulla di statico, anzi nel Meg o nella Cvx si viene incoraggiati alla ricerca e la ricerca ci dice che la teologia sacramentale è in continua scoperta, in continuo avanzamento. Ce lo dicono tanti teologi, soprattutto all’estero, anche gesuiti, che hanno attivato una ricerca trasversale per cui ciò che prima era nascosto adesso viene sperimentato alla luce.
Chiudiamo con una possibile apertura al futuro: se potessi, cosa suggeriresti alla chiesa e in particolare alla Cvx?
Alla Chiesa suggerirei di prendere sul serio le laiche e i laici, al momento troppo spesso (soprattutto le donne) presenze ininfluenti, e affrontare così i temi sul tappeto, in una direzione più realistica. In fondo si tratterebbe di mettersi nel solco del processo di decentramento portato avanti da Papa Francesco e volto a incoraggiare la ricerca a livello territoriale. Sono soltanto i vescovi, e i vescovi da soli, che possono prendere decisioni alle volte, purtroppo, anche sulla testa delle fedeli e dei fedeli? Ecco, i cammini sinodali vanno esattamente nella direzione opposta a questa visione statica dell’ecclesiologia e le questioni Lgbt emergono appunto ogni volta che i cammini sinodali si rivelano realmente aperti. Parecchie cose si muovono all’interno della nostra amata Chiesa cattolica. È dunque bene che quanto di nuovo va emergendo venga discusso insieme. Non è un caso che in questo particolarissimo frangente storico i temi Lgbt vengano alla luce nei paesi del Nord Europa dove c’è una tradizione di forte associazionismo che condivide le scelte con la Conferenza episcopale. Un passaggio fondamentale è stato comunque, ancor più dell’Amoris Laetitia, il Sinodo sui giovani. In particolare l’idea di rivedere questi temi da un punto di vista non solo pastorale (a volte legato ai singoli esponenti) ma anche e soprattutto teologico e antropologico. Ascoltiamoli i nuovi teologi e teologhe!
Quanto alla Cvx, anzitutto c’è da dire che non solo in Italia ma nel mondo (penso a Malta, Cile, alla Spagna, al Sud-Est asiatico) esse stanno aprendo una sponda sulla scia della Chiesa in uscita cara a Papa Francesco. Tuttavia, in questo momento le incoraggerei in particolare a esplorare insieme. Proprio perché riteniamo fondamentale l’importanza del laicato, non basta più ottenere singole aperture pastorali qua e là, ma dovremmo provare a percorrere alcuni pezzi di strada insieme per immaginare una pastorale che sia veramente inclusiva. Perché no?
grazie per questa intervista che fa emergere attraverso l’esperienza personale piste di riflessione, occasioni di incontro pacate e aperte che sarebbe bello incontrare anche sull’altra sponda, se vogliamo dirla così, che non mi piace…capacità di ascolto, capacità di vedere lo Spirito all’opera nella realtà, proprio lì dove è più ferita, nuovi germogli.
buon cammino!!