24 Novembre 2024
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La Cvx di Palermo e il Sinodo: la Chiesa che vorremmo

DI ALESSANDRA PERRICONE

Questo Sinodo è inteso come un processo sinodale. Una domanda fondamentale ci spinge e ci guida: In che modo questo camminare insieme permette alla Chiesa di proclamare il Vangelo secondo la missione che le è stata affidata?

Così il sito del Vaticano sul senso del Sinodo 21-23. Sentiamo allora da tre “facilitatori” di questo processo, e membri della Cvx, come esso si sta concretizzando a livello locale, in particolare nella diocesi di Palermo, la mia città.
La parola a Giuseppe, Daniela e Carmelo.

Sulla base dell’esperienza fatta finora, come definireste questo Sinodo?

Giuseppe – Una preziosa opportunità per ritrovare, attraverso il camminare insieme come modo di essere Chiesa e il coinvolgimento dei vescovi, le vie essenziali e l’annuncio, la testimonianza di fede. Il tutto però cominciando con un atto penitenziale, perché la comunità ecclesiale è ancora molto lontana dalla logica del Sinodo.
Carmelo – Quando a Daniela e a me è arrivata la proposta, non eravamo nemmeno a Palermo e per tutto l’inizio del percorso ci è mancato il confronto con gli altri formatori. Quindi la prima cosa che abbiamo fatto è stata chiederci cosa dovessimo intendere per Chiesa al di là dell’istituzione che da un lato, come tale, in questo periodo storico sembra mostrare più che altro tutti i suoi mali, ma che pure, dall’altro, si pone il problema di riprendere il messaggio evangelico tornando alle radici.
Daniela – Abbiamo anche tentato di capire proprio il senso del termine Sinodo e ora posso dire che, nel suo significato di camminare insieme con la Chiesa e la società, si può riassumere in una storia di incontri vissuti con entusiasmo per andare oltre.

Procediamo allora per ordine: cosa vi ha chiesto il Vescovo?

Daniela – Tre cose: camminare, comunicare, celebrare. E ci ha fornito documenti con indicazioni su come procedere, pur non togliendoci la libertà di movimento, solo invitandoci ad attuare quelle indicazioni in ambienti familiari. Noi, per esempio, ci siamo riuniti a casa nostra e la differenza è stata evidente, in quanto ci ha permesso di condividere in leggerezza, ma mettendo a nudo le nostre anime.
Carmelo – In effetti la nostra è stata un’esperienza che definirei immediata, sia perché ci siamo ritrovati quasi catapultati nel percorso sinodale, sia perché nessuno dei due opera in diocesi e quindi l’approccio ha fin dall’inizio avuto poco di istituzionale. Gli incontri sono stati quindi non solo la parte principale della nostra partecipazione, ma anche quella più emozionante.
Giuseppe – E d’altra parte il Vescovo ha ribadito quanto più volte espresso da Papa Francesco sul clericalismo, definendolo una stortura all’interno della Chiesa, una deformazione consolidata e dunque difficile da smontare, che ha portato ad abusi di potere, di coscienza, di sessualità. Se l’obiettivo che ci ha chiesto di tenere ben presente è il rinnovamento dell’annuncio, che poi diventa rinnovamento della Pastorale ovvero dell’evangelizzazione organizzata, ottenerlo non è però cosa facile.

Clericalismo, parola chiave di questo Sinodo. Perché?

La Chiesa che vorremmoCarmelo – Forse in parte perché non riguarda solo i preti, anzi c’è chi dice che i più clericali siano spesso i laici. E infatti il primo passaggio del percorso è consistito nel toglierci alcune pesanti zavorre, riflettendo anzitutto su noi stessi e riscoprendo il senso dell’essere battezzati come condizione che ci accomuna e ci unisce nel desiderio di riformare la Chiesa.
Daniela – La Chiesa è in deficit di ascolto, quell’ascolto che è appunto il contrario del clericalismo inteso come smania di controllo. Vale sicuramente anche per noi laici, che a volte ci sentiamo degli esperti e finiamo col peccare di presunzione e col non vedere quelle piccole cose che fanno invece l’armonia delle diversità.
Giuseppe – Clericalismo è voler controllare i fedeli, ma Gesù non ha mai fatto niente del genere, non ha mai ipotizzato un potere sacerdotale “intrinseco” che quindi oggi sarebbe separato dal sacerdozio comune che unisce tutti i battezzati. Serve ancora tanto lavoro perché il rinnovamento si operi nel Magistero, a livello teologico e nel sensus fidei dei fedeli.

In questo senso che aria tira a livello locale?

Giuseppe – Ancora direi che non ci siamo. Dal 2015, anno del Sinodo della famiglia in cui si tentò un’apertura ai temi del matrimonio e della sessualità, fino a oggi, l’avvio dei processi cari al Papa incontra sempre molte difficoltà. Tuttora sono tanti i preti che non riescono nemmeno a esprimere il loro disagio rispetto alla necessità di valorizzare il popolo di Dio tramite processi collegiali.
Daniela – Gli intenti del Vescovo sono chiari e mostrano una reale consapevolezza di questa necessità, ma non si può dire altrettanto per chi è vicino alla Chiesa, a cominciare dalle molte parrocchie che non se la sono sentita di partecipare – di fatto sprecando un’occasione – fino ai tanti laici disincantati e quindi rinunciatari.
Carmelo – Al momento bisogna prendere atto delle differenze di punti di vista. Che però ci siano posizioni così diverse all’interno della Chiesa è intanto un fatto positivo; poi si vedrà. Personalmente sono fiducioso nella contagiosità di certe esperienze.

La Chiesa però è fatta anche di “lontani”. Ne erano presenti ai vostri incontri?

La Chiesa nella cittàDaniela – Ci siamo subito chiesti con chi dovessimo fare prioritariamente questo Sinodo, questo cammino insieme, e il pensiero è andato proprio alle persone più lontane dalla Chiesa che, anzi, condividendo con testimonianze forti e grande umanità il loro sentirsi giudicate, ci hanno stimolato a uno sforzo sempre maggiore d’inclusione, oltre che di svuotamento di noi stessi, per accogliere l’altro. Abbiamo capito di dover imparare, e non improvvisare, il linguaggio degli esclusi, anche contestualizzando toni eventualmente aggressivi e violenti.
Carmelo – Ai lontani questo Sinodo si rivolge in modo particolare. E ci ha colpito constatare che chi ha meno familiarità, non solo con i contenuti ma anche con la metodologia di condivisione spesso usata nelle comunità, è sicuramente più difficile da approcciare, ma poi dimostra una vicinanza ai temi evangelici che supera la nostra. Se il camminare insieme vuol dire stabilire relazioni, bisogna conoscersi, mettendosi in ascolto anche delle opinioni più diverse.
Giuseppe – Sono loro, soprattutto se giovani, a ispirarci il bisogno di cambiare mentalità e linguaggio. In questo non dobbiamo avere paura ma, al contrario, confidare nella presenza dello Spirito ed entrare nella concretezza della storia.

Ci sono quindi dei segnali che questo Sinodo non sia solo occasione di una pura dichiarazione d’intenti?

Giuseppe – A giudicare dalle proposte che sono già emerse direi di sì. Soprattutto è stata sottolineata la necessità di formazione a vari livelli: dei presbiteri, dei catechisti, delle coppie.
Daniela – Tanti ci hanno chiesto di dare continuità e regolarità agli incontri, e questo lo considero già un grande dono. Uscire e aprire le porte ci era sembrata fin dall’inizio una possibile risposta alla domanda “Cosa posso fare io per la Chiesa?”, ora risuona come una grazia che il Signore ha esaudito.
Carmelo – È il percorso fatto fin qui che, esponendoci gli uni agli altri, è in sé portatore di speranza.

Chiudiamo con una nota personale: come avete vissuto questa chiamata?

Carmelo – Come un fuoco che si è riacceso, sia a livello individuale che comunitario. E poi… perché no?
Giuseppe – All’inizio con qualche dubbio sul possibile risultato, ora sento che può essere davvero l’inizio di un percorso sinodale diretto all’annuncio del Vangelo.
Daniela – Dopo una certa resistenza iniziale, mi sono detta che, se è vero che il Signore ha bisogno degli uomini, non rispondere avrebbe probabilmente voluto dire perdere un’occasione. E non solo per me.

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