Israele e Palestina: la complessità di un conflitto, tavola rotonda a Napoli
DI ANTONIO M. CERVO
Voler cercare un unico colpevole nell’attuale sciarada del Medio Oriente è ormai un esercizio a cui molti talk-show e giornali tentano di convertirci. Esercizio dove a replica segue replica, dove a una valutazione plausibile può seguirne un’altra altrettanto plausibile.
La tavola rotonda a Napoli su Israele e Palestina
Una premessa mi pare, da subito, doverosa: quest’articolo non darà al lettore, neanche al più appassionato, né facili soluzioni (le stesse che nemmeno la comunità internazionale a oggi purtroppo può escogitare) né “analisi al microscopio” del conflitto. Suo scopo è, piuttosto, tentare di ammorbidire le letture “a senso unico” di quanto sta succedendo (a chi parla della mancata proporzionalità della reazione israeliana, ecco chi risponde subito con la pari mancata proporzionalità nella mattanza del 7 ottobre scorso; a chi ricorda il massacro dei giochi olimpici di Monaco 1972, ecco chi “Sì, ok. Ma Sabra e Shatila?”) e orientare, nei limiti del possibile, a un ascolto rispettoso della realtà, inermi, come siamo, di fronte a pagine di una storia che ci appaiono più grandi di noi e che non vediamo l’ora di voltare. Si spera: definitivamente.
Lo scorso novembre, il Centro Culturale “Vittorio Liberti S.I.” (nato anni fa dall’intuizione di padre Vittorio Liberti per raccogliere le forze migliori della società civile – professionisti, magistrati, medici, docenti universitari – e in cui siedono anche diversi membri della Cvx “Gesù Nuovo” di Napoli) ha organizzato un momento di riflessione sull’attuale crisi mediorientale, forte di due convinzioni: la necessità di tentare di accostarsi al tema senza pregiudizi (religiosi, ideologici, ecc.) e, ben lungi dalla presunzione di avere facili ricette, dare un’occasione di confronto/ascolto fra esperti.
Del resto, ciò si è reso tanto più urgente con la speranza – se non altro – di proporre a ciascuno una prospettiva diversa: quella di approcciarsi alla complessità delle cose, dove la validità di un argomento non ne esclude un’altra, dove la verità di un torto subìto non può impedire di aprire brecce praticabili per un futuro nuovo.
L’Islam è ostacolo o risorsa per la Pace?
Nel provare a tratteggiare una risposta, padre Luigi Territto S.I. (docente di Teologia alla Pontificia Università dell’Italia Meridionale) non ha dubbi nel picconare quel “pre-giudizio” probabilmente ancorato nel fondo di molti, secondo cui in certe religioni si agiti una sorta di ancestrale radice di violenza.
Chi si sognerebbe oggi di negare che il Cristianesimo sia una religione di pace? Eppure, anche noi abbiamo conosciuto il virus della violenza: la nostra tradizione ha figure bibliche come quella di re Davide e la nostra storia ricorda finanche padri della Chiesa come Agostino d’Ippona che giustificava la spada dell’Imperatore per uccidere i donatisti
“uccidere infidelem non est peccatum”, uno dei motti del tempo!
Da questo, dunque, nasce l’ineludibile esigenza di contestualizzare ogni messaggio, secondo le giuste coordinate esegetiche e storiche, scindendo la purezza di certi contenuti da quelle che spesso sono state le loro degenerazioni o le loro maldestre letture.
In questa linea, dunque, è doveroso ricordare non solo le sure del Corano dove il Profeta si presenta come esempio etico di altruismo, attenzione all’Altro, mitezza (sura 33), ma anche il valore fondante che la “Salam” (Pace) riveste nella più profonda teologia musulmana. La sua spiritualità la intende, infatti, radicalmente da sempre come stabilità e salvezza dell’Altro, da attuarsi in un clima di “rientro” da tutto ciò che è stato conflitto e frattura tra uomini.
Israele e Palestina: come venir fuori dalla crisi nell’immediato?
Il Prof Settimio Stallone (docente di relazioni internazionali alla “Federico II” di Napoli) invita, innanzitutto, a partire da un dato: la constatazione del fallimento della comunità internazionale tutta, dal 1948 a oggi.
Dagli USA, agli ex Paesi coloniali (come Regno Unito e Francia), tutti gli attori internazionali hanno faticato sia nella tessitura di una reale convivenza fra i due popoli che nel mantenimento della contestuale interlocuzione con le autorità israeliane e palestinesi.
Infatti, proprio la difficoltà di attuare la cosiddetta “politica dei due forni” (che la diplomazia italiana per un po’ riuscì a curare bene con Craxi e La Malfa) ha avuto l’effetto di assegnare, di fatto, a Israele il ruolo di “poliziotto unico” dell’ordine mediorientale nel corso del tempo.
Su tale scia, la libertà d’azione di Israele è arrivata purtroppo anche a declinarsi nelle occupazioni di molte aree destinate ai palestinesi, nonché nella compressione dei loro diritti e delle loro libertà (specie in lembi di terra come Gaza!). Qui, l’esacerbazione palestinese ha trovato sbocco in gruppi di guerriglieri come Hamas (lo stesso gruppo che è stato foraggiato nel silenzio di Israele, nel corso degli anni, in quanto considerato “stabilizzatore” d’area). Ebbene, in tale contesto, per il Prof Stallone, è inevitabile che si sia arrivati alla crisi attuale. Una crisi in cui sono esplose due ragioni (quella del popolo israeliano e palestinese), entrambe valide e parallele, che, però non appena si avvalgono della violenza, diventano due torti.
Può qualcosa il diritto internazionale?
“Sulla carta” – spiega il prof Stallone – il diritto internazionale è qualcosa che naturalmente può sempre essere invocato (i crimini di guerra e le atrocità di ambo le parti parlano da sole, ben lungi dall’idea che possano esistere “morti di serie A” e di “serie B”: di fronte alle scene del 7 ottobre dove gli aguzzini urlavano “uccidi quell’ebreo”, dall’altra parte ecco i dati Unicef dove a oggi ci sarebbero più di 3.450 bambini uccisi a Gaza…) ma che durante tanti, troppi conflitti – come la storia insegna – viene regolarmente messo in stand by, venendo sostituito dalla “legge di Brenno”.
Solo quando ambo le parti in causa riterranno di aver versato abbastanza sangue (tanto quanto il pregiudizio subìto), ritornerà in auge il diritto internazionale.
Che cosa sperare per il domani? E quali saranno i tempi per uscire dalla crisi?
Come sottolinea abuna Raed Abusahlia (già direttore della Caritas di Gerusalemme, presente all’incontro via Skype), è difficilissimo a oggi dire quali sono e saranno i tempi per uscir fuori dalla crisi, data la tensione sfibrante delle due parti.
Una tensione che, secondo il Prof Stallone, solo gli Usa sarebbero in grado di diluire di fatto, specie esercitando la giusta pressione sull’alleato israeliano (questo, almeno, attenendosi a parametri di realpolitik: sarebbero assenti, infatti, altri validi mediatori con un ascendente apprezzabile su uno dei due contendenti).
Due popoli in due Stati…
In tale contesto, anche “il nuovo ordine” post conflitto appare fragilissimo da immaginarsi, in un equilibrio che oggi sembra spezzato per sempre. Rispetto al sogno di un unico Stato dove convivano armonicamente sia palestinesi che israeliani sotto un unico governo laico e unitario (disegno indubbiamente splendido quanto purtroppo difficile da realizzarsi), più praticabile sarebbe, invece, l’originario progetto del 1948 di “due popoli, in due Stati” (così come ribadito dal segretario generale dell’Onu Gutterres). Magari stavolta, però, con un ruolo più incisivo della comunità internazionale, come garante e catalizzatore reale della convivenza fra i due popoli.
“Se ciascun popolo guarderà solo al proprio dolore, allora prevarrà sempre la ragione del risentimento, della rappresaglia, della vendetta. Ma se la memoria del dolore sarà anche memoria della sofferenza dell’altro […], allora essa può rappresentare l’inizio di un processo di comprensione. Dare voce al dolore altrui è premessa di ogni futura politica di pace” (card. Carlo Maria Martini).