Imparare dal silenzio
DI IDA NUCERA
L’interrogativo sui tratti del tempo vissuto in una struttura ospedaliera ai tempi del Covid intreccia l’indagine giornalistica con l’esperienza personale, scoprendo il tratto spirituale dell’irrompere della Grazia nel quotidiano.
Oggi, prima di entrare in ospedale, si salutano i propri cari e si affronta da soli ciò che si deve.
Se si è fortunati, previo tampone, si paga il privilegio, ingiusto, di una camera privata per il fine giusto di stare vicino a un figlio che ha poco più di vent’anni. Come genitori, solitamente, si vive questo momento con un grado più o meno grande di ansia, paura e batticuore. Non mettiamo in conto che possa accadere l’inatteso e l’imprevisto. Che si possa entrare nel silenzio come un tempo di grazia che ci restituisce ben altro.
Prima della pandemia i familiari accompagnavano e restavano fuori dal blocco operatorio. Ci si poteva muovere, fare e dire cose, mettere in atto manovre interiori di distrazione, esercizi di esorcizzazione della paura. Pregare, quando la mente e il cuore non erano troppo in subbuglio.
Oggi, quando ci si ricovera, si tagliano i ponti con gli affetti. Solo grazie ai cellulari può continuare la comunicazione, persino alle persone in rianimazione è data la possibilità di un saluto, a volte l’ultimo, ai propri cari, da infermieri umani e compassionevoli, che fanno questo e molto altro, sostituendosi a quella relazione affettiva che sostiene e consola gli afflitti.
Sempre di sofferenza si tratta, qualsiasi cosa si debba affrontare in ospedale, da quella positiva, come un parto o colma di ansia e preoccupazione, quale un intervento, oggi è vissuta in perfetta solitudine.
Le parole sono inadeguate e non ci consentono di scendere negli abissi di abbandoni indicibili, vissuti dai più fragili, anziani, bambini, persone con handicap.
Non ci soffermiamo sulle tragedie che si sono consumate in questi mesi, per pudore e rispetto dei morti e delle famiglie che si sono viste strappare il cordoglio e la consolazione di un corpo su cui piangere. I compagni perfetti in questi momenti difficili sono il silenzio e la solitudine, interrotti dalle relazioni con i sanitari, nei tempi e modalità opportuni.
Si può provare ad attraversare l’attesa, come un tempo propizio. Quel tempo sospeso, mentre giù operano un figlio, e in stanza accade una cosa imprevista: si prova a scrivere e ad aspettare.
Scrivere e immedesimarsi in tutti i crocifissi che in questo momento sono nella sofferenza. Ovattata e protetta, persino privilegiata, come questa. O quella atroce e indescrivibile, di Paesi come il Brasile o l’India, dove i propri morti sono bruciati a cielo aperto.
L’umano è a rischio ovunque, anche in Occidente, per tutto ciò che incattivisce e rende rabbiosi. Litigi feroci con sconosciuti per futili motivi. Reazioni scomposte sui social, smarrendo lucidità, sconfinano nella bestialità.
Il silenzio, invece, insegna. Proprio il silenzio tanto difficile da sopportare e da gestire. Da vivere come dimensione che restituisce a se stessi. A volte arriva, che nemmeno lo aspetti più. Il silenzio si allarga e si trasforma nella memoria che resta. Che l’umano resta, resiste e si sveglia dall’anestesia tornando a sorridere. Che la memoria è grata e se vuoi restituirla è il medico, che pure lei è una mamma, ed è corsa ad avvertirti che tutto è andato bene. E non puoi abbracciarla, in questo tempo bastardo. Così la commozione trabocca. Ma non importa, quell’istante è più forte di tutto il resto che ci è stato tolto.