Giorno del Ricordo 2021: ricordare per dire mai più
DI RITA CECCO
Il fascismo, la guerra, le vendette dell’esercito jugoslavo
Ma le stesse cellule malate si trovano nel corpo di ogni nazione, pronte a entrare in attività (Charlie Chaplin)
1943-45: in Venezia Giulia, Dalmazia e Quarnaro esplode la violenza.
L’Armata jugoslava di Tito fa solo sue quelle terre fino ad allora italiane, ma da sempre abitate da una convivenza di popoli, lingue e culture diverse, italiani e slavi. Comunità per tanto tempo vissute insieme pacificamente, ma nel secolo del nazionalismo, dei fascismi e del nazismo, spinte al conflitto. L’Armata jugoslava di Tito si prende il territorio. È una stagione di vendette, stragi e ritorsione, dopo altrettante violenze e crimini dei fascisti italiani contro le popolazioni slave inermi in quelle regioni. Ne pagano le conseguenze migliaia di italiani abitanti di quei luoghi, anche cittadini comuni che nulla avevano contato nelle vicende della guerra, o che lavoravano per continuare la convivenza.
È la crudeltà delle foibe.
Le foibe
Si stima che le vittime in Venezia Giulia, nel Quarnaro e nella Dalmazia siano state, sempre secondo gli storici Pupo e Spazzali, tra le 3.000 e le 5.000, comprese le salme recuperate e quelle stimate, nonché i morti nei campi di concentramento jugoslavi, mentre alcune fonti fanno salire questo numero fino a 11.000. In generale però cifre superiori alle 5.000 si raggiungono soltanto conteggiando anche i caduti che si ebbero da parte italiana nella lotta anti-partigiana.
Le foibe: grandi cavità nel terreno, veri e propri inghiottitoi, dove furono gettate degli italiani assassinati, non di rado ancora vivi o gravemente feriti, per occultarne i cadaveri. Decine e decine di foibe, anche cave e miniera abbandonate, sparpagliate fra Friuli, Venezia Giulia e Dalmazia.
Giorno del Ricordo 2021: la testimonianza di Giovanni Radeticchio, sopravvissuto
Dopo giorni di dura prigionia, durante i quali fummo spesso selvaggiamente percossi e patimmo la fame, una mattina, prima dell’alba, sentii uno dei nostri aguzzini dire agli altri “facciamo presto, perché si parte subito”. Infatti poco dopo fummo condotti in sei, legati insieme con un unico filo di ferro, oltre a quello che ci teneva avvinte le mani dietro la schiena, in direzione di Arsia.
Indossavamo i soli pantaloni e ai piedi avevamo solo le calze. Un chilometro di cammino e ci fermammo ai piedi di una collinetta dove, mediante un filo di ferro, ci fu appeso alle mani legate un masso di almeno 20 chili. Fummo sospinti verso l’orlo di una foiba, la cui gola si apriva paurosamente nera. Uno di noi, mezzo istupidito per le sevizie subite, si gettò urlando nel vuoto, di propria iniziativa. Un partigiano allora, in piedi col mitra puntato su di una roccia laterale, c’impose di seguirne l’esempio.
Poiché non mi muovevo, mi sparò contro. Ma a questo punto accadde il prodigio: il proiettile anziché ferirmi spezzò il filo di ferro che teneva legata la pietra, cosicché, quando mi gettai nella foiba, il masso era rotolato lontano da me…
Un moto di odio e di furia sanguinaria
“Vi fu dunque un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica.”
Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel 2007 affermò altresì che “quel che si può dire di certo è che si consumò — nel modo più evidente con la disumana ferocia delle foibe — una delle barbarie del secolo scorso”.
L’esodo degli italiani
E poi l’esodo, “ovvero l’emigrazione più o meno forzata della maggioranza dei cittadini di etnia e di lingua italiana dalla Venezia Giulia, del Quarnaro e dalla Dalmazia, territori del Regno d’Italia prima occupati dall’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia del maresciallo Josip Broz Tito e, successivamente, annessi dalla Jugoslavia. Emigrazione dovuta a varie ragioni: dall’oppressione esercitata da un regime la cui natura totalitaria impediva anche la libera espressione dell’identità nazionale, al rigetto dei mutamenti nell’egemonia nazionale e sociale nell’area, nonché alla vicinanza dell’Italia, che costituì un fattore oggettivo di attrazione per popolazioni perseguitate e impaurite, nonostante il governo italiano si fosse a più riprese adoperato per fermare, o quantomeno contenere, l’esodo. Si stima che i giuliani, i quarnerini e i dalmati italiani che emigrarono dalle loro terre di origine ammontino a un numero compreso tra le 250.000 e le 350.000 persone tra il 1945 e il 1956”.
Dal mio diario, profuga a 6 anni dall’Istria nel 1962…
La scuola per noi era troppo lontana, a Buje, dieci chilometri da Villanova… meglio iscriversi a quella del paese che era croata… anche per non dare nell’occhio.
Essere italiani è una colpa in quella Jugoslavia di Tito.
[…] Quello che mi piace di più è quello rosso con i quadretti bianchi (me l’ha regalato la mia cugina ricca, quella che vive a Trieste e mi dà tutti i suoi vestiti).
Mia madre mi fa indossare tutti i miei vestiti, uno sopra l’altro, così uno è un po’ più corto degli altri e si vedono gli orli che spuntano da sotto. Mi fa mettere le “papuzze”, le scarpe di pezza che mi aveva fatto la nonna Ljuba. E io mi vergogno di questa cosa e ne chiedo il perché. Mi rispondono che saremmo dovuti andare a Buje a comprare i libri per la scuola. Chissà perché per andare a scuola bisogna mettersi tutti quei vestiti addosso e fare anche una brutta figura.
Alla sera capisco. Siamo a Trieste dalla zia Nella.
Abbiamo definitivamente abbandonato l’Istria, siamo scappati con quello che avevamo addosso e basta, senza valige.
Mi pervade la paura: sgomento dell’incognito e di tutto quello che ci sarebbe potuto capitare.
Piango per tutto quello che ho lasciato… poco per una bambina di sei anni, ma tanto in termini di affettività e sicurezza… la mia amica Noemi… il mio vitellino Moro che era come un pony per me… il mio nonno Carlo con il quale andavo a pascolare e mi raccontava le storie dell’Africa…”
Ricordare fa parte della nostra storia…
Disse il Presidente della Repubblica Azeglio Ciampi, quando nel 2005 il Giorno del ricordo fu celebrato per la prima volta:
“Questi drammatici avvenimenti formano parte integrante della nostra vicenda nazionale; devono essere radicati nella nostra memoria; ricordati e spiegati alle nuove generazioni. Tanta efferatezza fu la tragica conseguenza delle ideologie nazionalistiche e razziste propagate dai regimi dittatoriali responsabili del secondo conflitto mondiale e dei drammi che ne seguirono”.
10 febbraio 2021: un giorno per ricordare
Il 10 febbraio 1947 fu firmato a Parigi il Trattato di pace, al termine della seconda Guerra Mondiale, che mise formalmente fine alle ostilità e i cui contenuti erano stati definiti a seguito dei lavori della Conferenza di pace, svoltasi parimenti a Parigi, tra il 29 luglio e il 15 ottobre 1946.
Nel 2005 quella data è diventata “Giorno del ricordo”.