Francesco Rossi De Gasperis S.I. (1926-2024): una vita a servizio della Parola
DI ROMOLO GUASCO
Il mio ricordo di Francesco Rossi de Gasperis sarà sempre legato ai giorni passati insieme in Terra Santa, giorni che conservo nel mio cuore e in cui ho ricevuto una grande Grazia dal Signore. Francesco era un vero maestro che insegnava, vivendolo, il senso profondo della Parola, il suo aspetto pedagogico, il suo essere strumento che Dio usa per farsi conoscere all’uomo e portarlo alla Salvezza. Parola da leggere e studiare certo, ma soprattutto “mangiare”, perché vero nutrimento (“Prendi il libro e mangia!” è infatti il titolo di una seria di volumi sul vecchio testamento che ha pubblicato dal 1997 per EDB).
Parola che disegna una storia unitaria della Salvezza ma con caratteri e contesti anche molto diversi, e che tutta insieme serve all’uomo: non si possono leggere i vangeli e il nuovo testamento senza conoscere, per quanto possibile, il vecchio testamento.
Un buon pastore, dalla cultura biblica straordinaria
Con la sua cultura biblica straordinaria non rimaneva in cattedra, ma camminava per condurre le persone in cerca di Dio, soprattutto in Terra Santa, come un buon pastore con tante pecore (noi) che gli andavano dietro.
Credo di aver conosciuto e ascoltato la prima volta padre Francesco Rossi de Gasperis una sera, dopo cena, seduti sulla scalinata d’entrata alla foresteria del Monte delle Beatitudini in Galilea, durante un pellegrinaggio della parrocchia di San Roberto Bellarmino con Alberto Parisi S.I., suo grande amico. Ci cominciò a raccontare dell’ebraismo e della sempre difficile situazione di quei luoghi. Offriva delle chiavi di lettura ai racconti biblici semplici quanto profonde: ero ragazzo e ne rimasi affascinato.
10 giorni con padre Francesco Rossi de Gasperis
Lo rivedemmo a Roma e lo chiamammo in parrocchia per qualche conferenza, finché riuscimmo a organizzare, nel maggio del 1985, un viaggio in Terra Santa con la sua guida: 10 giorni insieme. C’erano fra gli altri Giuseppe Cascino S.I., mia moglie Laura, gli amici di comunità Silvano, Guido, Sabina e l’amata Gloria, che lo ritroverà ora nel Signore. Due ricordi. Una conversazione, una lectio, quasi improvvisata, nel caldo dei resti dell’antica sinagoga di Cafarnao, in cui ci raccontava di un Gesù che “prendeva coscienza” della sua vocazione: da maestro con cinque discepoli come i giudei del tempo, al cambiamento rivoluzionario (scismatico) dei 12 discepoli (Marco 3,14). Una comprensione di Gesù, “vero uomo e vero Dio”, per me assolutamente nuova.
Una sorprendente fusione di sapienza e semplicità…
L’altro ricordo è più divertente: finimmo in un campeggio “essenziale” sul lago di Galilea. Era una grande tenda aperta, con tante brandine, e ci assalirono zanzare che ci impedivano di dormire. Mentre con Silvano provavamo a preparare improbabili miscele contro gli insetti, bollendo foglie di eucalipto su un fornello, lui sulla brandina, un fazzoletto sul viso, si addormentava in pochi minuti. Sapienza e semplicità.
Ho avuto la gioia di salutarlo qualche anno fa, quando con Laura siamo andati a trovarlo nella residenza del Canisio: parlava lentamente ma stava bene, e ci ha ricevuto e abbracciato. Gli abbiamo raccontato di noi e dei nostri figli e abbiamo avuto la gioia di lasciargli il libro della giacomogiacomo, l’Associazione con cui andiamo a Nairobi: una storia e un’avventura diversa, che stiamo realizzando anche grazie a quello che Francesco ci ha insegnato.
Concludo questo ricordo riportando un brano di una sua lettera circolare del 2007 e che ho ritrovato nel mio archivio.
L’itinerario che è andato snodandosi nella mia esistenza dal Giappone a Gerusalemme, dalle nazioni a Israele, su cammini che incrociano Roma e l’Italia – mentre nello sfondo sfilano tanti altri paesi di Europa, di Asia, di Africa e delle Americhe, dove più volte sono stato chiamato a servire la parola del Signore – ha accompagnato nella mia coscienza un’evoluzione molto netta per quanto riguarda la mia intelligenza della diaconia ecclesiale dell’Evangelo.
Si è dileguata, silenziosamente, ogni pretesa di “conquista”, a cui mi aprì l’anima l’appartenenza alla Lega Missionaria Studenti, la prima associazione a cui partecipai da ragazzo della Scuola Media, nell’Istituto Massimo di Roma. Ricordo l’inno che allora cantavamo: “Tempo d’eroi, tempo di conquista, fronte a levante, quanta terra in vista!”.È sparita anche ogni illusione di diventare “come loro”, come mal si tradusse in italiano il titolo del famoso libro di René Voillaume, Au coeur des masses, alla metà del secolo scorso. Capisco sempre meglio che il farsi tutto a tutti di Paolo – giudeo con i giudei e senza-Torah con i senza-Torah – è possibile solamente a uno che non abbia cambiato solamente i suoi abiti, la sua lingua e i suoi costumi, rimanendo in realtà ciò che era prima, ma solamente a chi sia diventato un uomo completamente nuovo in Gesù Cristo, convertito e inculturato totalmente nella sua Alleanza e nel suo Evangelo (1Cor 9,19-23).
Sento che, prima di andare ad altre persone, ad altri paesi e ad altre culture, ad altre religioni e ad altre Chiese, dovremmo diventare totalmente liberi, in Verità, all’interno della nostra cultura, della nostra religione e della nostra Chiesa. Liberi da noi stessi perché fatti “schiavi di Cristo” (Rm 1,1; 1Cor 7,22), “incastonati in Cristo-nostra-Torah (ennomoi Christou)” (1Cor 9,21; cf. Rm 10,4). Liberi soprattutto dalla pre-occupazione di riuscire, di piacere, di essere accettati e apprezzati, di avere dei seguaci, facendo cadere ogni “contabilità” dei nostri successi missionari, con un “disinteresse” sincero e completo per i risultati della nostra presenza nel mondo. Liberi soprattutto di non confondere l’autorità di Gesù, la sua exousia con la nostra, il suo Nome con il nostro.