24 Novembre 2024
Cristiani nel mondoFocus

INTERVISTA A PADRE FABRIZIO VALLETTI

Il Vangelo della buona politica: la nostra intervista esclusiva a padre Valletti SI

A cura di Ilaria Dinale
Quando mi chiedono di fare un’intervista a padre Valletti, per me è solo “il prete di Scampia”. È il gesuita che dopo vent’anni di Vele ha finalmente trovato un po’ di tranquillità venendo nella comunità di Sant’Ignazio a Roma. Del resto, anche Google è d’accordo. Digitando nella barra di ricerca il nome Fabrizio Valletti, il primo risultato è il libro Un gesuita a Scampia edito dalle Edizioni Dehoniane Bologna nel 2017.

Eppure basta scorrere la pagina un po’ più in basso per accorgersi che quella è solo la vetta di una vita lunga e piena. Su YouTube capto il video Le mille vite di Fabrizio Valletti sul canale LoEscludo, (oltre a quella della trasmissione di Tv2000 #SOUL Speciale ’68) e mi si apre un mondo. Padre Valletti è il Forrest Gump della Compagnia. Come Tom Hanks, nel corso delle due ore di film, incontra praticamente tutti i presidenti degli Stati Uniti dal secondo dopoguerra in poi, così p. Valletti è stato partecipe di tutti gli eventi chiave degli ultimi sessant’anni di storia italiana.

Le proteste per il piano regolatore a Valle Giulia, l’alluvione a Firenze del 1966, l’occupazione di San Pietro contro Nixon, gli incontri con Berlinguer e don Milani…

E ancora, a lui si devono la fondazione della Scuola sul Mare di Follonica e, a Bologna, quelle dell’Università «Primo Levi» e del Centro Poggeschi. Nonché numerose missioni in Africa e innumerevoli attività al fianco degli scout, della Cgil e chi più ne ha più ne metta… Ammirazione, immensa curiosità e una punta di soggezione sono quindi i sentimenti che mi dominano quando mi reco all’appuntamento concordato.

Rompere il ghiaccio non è un problema contemplato, perché appena metto piede dentro il portone di via del Caravita 8/A, vengo investita da una valanga di domande, poste da un uomo anziano con lo sguardo vivace e il sorriso implacabile.

Ma non ero io a dover fare l’intervista a padre Valletti? E invece no, eccolo partito…

«Davvero studi linguistica? Io ho lavorato con Tullio De Mauro!», «Se ti interessano le biblioteche posso suggerirti diverse organizzazioni che si occupano di promozione della lettura» e così via…

La prima ora scorre e io nemmeno me ne accorgo, rapita dalle parole di quest’uomo. Senza nemmeno che io abbia chiesto qualcosa, mi ha già dato delle risposte disarmanti. Le domande che seguono, dunque, non sono che un breve estratto di quelle due ore spese insieme una fredda mattina di febbraio. Ma chi volesse approfondire gli argomenti può utilmente consultare il libro Un gesuita a Scampia o, se si trova a Roma, passare da Sant’Ignazio per un caffè e due chiacchiere.

Avrà senz’altro a sua volta la fortuna di ascoltare di persona il paradigma di padre Valletti: piedi – cuore – testa – mani.

Tutto parte dai piedi, perché i piedi conducono all’incontro…

L’incontro stimola l’emozione nel cuore, la testa consente di capire e le mani, finalmente, di agire. Questo leit motiv, ripetutomi più volte nel corso della mattinata, sintetizza l’esperienza e l’insegnamento di questo gesuita straordinario.

La sua esperienza è sempre stata politica, non è mai mancata una componente di militanza e di impegno. Crede che sia una parte indispensabile della vita cristiana o la legge come una sua scelta in quanto persona, e non in quanto gesuita?

Il Vangelo, nel raccontare la storia di Gesù, ce lo rivela come un politico. Mettendo insieme un gruppetto di amici, prima 12 e poi addirittura 72, desidera che essi salvino le persone incontrandole. In Luca, la Buona Notizia non è l’enunciazione di un principio, ma la messa in pratica di azioni concrete. Restituire la vista ai ciechi, dare da mangiare agli affamati significa trasformare la dottrina sociale della Chiesa in impegno politico.

Occorre tuttavia superare gli interessi particolari, per cui la militanza non percepita come universale non può raggiungere quello che noi chiamiamo “bene comune”.

Troppe volte nella storia la politica si è realizzata come difesa di un’appartenenza o di un’identità; è una realtà talvolta presente anche all’interno della Chiesa stessa, quando nascono delle comunità ripiegate su di sé come delle lobby. La missione deve invece essere universale. Per me la militanza politica ha significato mettere insieme anche gli opposti, in un processo di mediazione e non di compromesso.

Questa mia aspirazione, spesso tacciata di comunismo, ha suscitato molte antipatie nel corso degli anni.

Quando studiavo architettura ci mettemmo tutti insieme, comunisti, cattolici e socialisti, perché a Roma venisse attuato il piano regolatore, affinché proprietari e costruttori non speculassero. Una volta divenuto gesuita, andai a Livorno, dove entrai in contatto con la compagnia portuale e presi parte alle attività della biblioteca del posto. Erano tutti comunisti, ma solo lì era possibile promuovere un percorso culturale. Poi, spostatomi a Firenze, scelsi di insegnare nel Mugello, vicino alla Barbiana di don Milani. Tra i giovani del posto, reputati montanari e zotici, diffusi la cultura e la passione per il viaggio, andando fino in Polonia e Jugoslavia, scoprendo i progetti culturali delle università ungheresi e cecoslovacche.

Dovunque mi mandassero i gesuiti, sentivo la necessità di fondare un qualcosa di carattere politico, per cui quando andai in Maremma fondai una scuola sperimentale e statale con la collaborazione del sindaco comunista.

La crescita culturale avvenne facendo musica e teatro, portando i ragazzi nei campi estivi, dando parola a ciò che veniva visto: trasformare la commozione in progetto è stata la strategia per conciliare anche persone radicalmente diverse. In Maremma infatti molti dei nonni dei ragazzi, in quanto comunisti, erano stati scomunicati nel 1949, ma – commossi dalle esperienze dei nipoti – finirono per diventare anche miei amici.

A Bologna mi occupai poi di università, proponendo dei seminari di studio che alla ricerca accademica unissero un’esperienza sul campo: accoglievamo gli immigrati e ci dedicavamo alla loro educazione al fianco della Cgil; grazie alla collaborazione tra vari sindacati fu possibile realizzare corsi di 150 ore per lavoratori, nonché fondare l’Università «Primo Levi».

Ovviamente questi rapporti con i sindacati mi crearono qualche problema…

Sempre a Bologna organizzai delle missioni in Africa, tra Tanzania, Mali e Ciad, con gli studenti universitari. Con il mio confratello Franco Martellozzo, in Ciad dal 1963, collaborammo alla realizzazione di biblioteche di villaggio e di scuole in muratura, nonché di un pozzo per l’irrigazione degli orti, coinvolgendo anche i genitori nell’educazione dei bambini. Anche questo è politica.

L’esperienza di Scampia, infine, non ha fatto che confermare questo mio impegno.

In questi ultimi anni mi sono dunque dedicato alla formazione, per insegnare un mestiere ai ragazzi che avevano abbandonato la scuola. La formazione professionale è stata infatti una risposta alla dispersione e all’abbandono scolastico, terreno da cui la Camorra trae facile manovalanza. Sono andato in carcere per capire come si diventa delinquenti, e il problema alla radice è l’ignoranza. Ma anche in carcere si può studiare e imparare a lavorare. Per questo sono nati corsi dentro e fuori di esso, dando vita a una cooperativa. Anche la cooperativa è una scelta politica, in un ambiente dominato dal lavoro in nero, per questo ora a Scampia esistono delle attività di sartoria e legatoria, anche se in questo periodo stanno vivendo naturalmente delle situazioni di grande difficoltà.

Dato che ne sta parlando, approfitto per porle la domanda successiva: potrebbe descrivere la realtà di Scampia con lo sguardo di chi ci è vissuto, lontano dalle facili narrazioni?

Scampia fino agli anni Settanta era campagna, una grande distesa a nord di Napoli con pecore, pastori e frutteti; poi la speculazione edilizia e la necessità di case popolari hanno spinto la realizzazione di un piano di costruzioni. L’area è stata dunque divisa in lotti e, lotto dopo lotto, è divenuta un centro con circa 60mila residenti più 15mila abusivi.Vele Scampia

È a tutti gli effetti una città, in cui ogni agglomerato di case accoglie dalle 350 alle 650 famiglie. Vi sono spazi verdi, una bellissima villa comunale, cinque istituti comprensivi – cioè dalla materna alle scuole medie – e cinque istituti superiori, cinque parrocchie, tre istituti religiosi maschili e due femminili.

Progressivamente vi sono state costruite delle residenze da parte della classe più abbiente; si tratta di isolati recintati e protetti, chiamati Parchi. Questo processo di urbanizzazione è continuato fino agli anni Novanta. Tra i vari edifici occorre senz’altro ricordare le Vele, delle case popolari che avrebbero dovuto rappresentare un modello architettonico ma che invece, occupate principalmente da esponenti della Camorra, sono presto diventate piazza di spaccio. Questo è avvenuto perché Scampia è molto facilmente accessibile dall’autostrada; grazie però all’intervento massiccio del questore Michele Spina moltissimi delinquenti sono stati arrestati e l’attività di spaccio si è quindi spostata nei comuni limitrofi.

L’azione pastorale richiesta, in un contesto del genere, non era ovviamente solo rituale: per questo motivo nel 2001 è nato il Progetto Scampia, con intento sociale e culturale. Grazie al contributo dell’assessore Mario Di Costanzo, è divenuto un progetto europeo articolato in tre strutture. Una di esse è il Centro Hurtado (2005), all’interno del quale si trovano una biblioteca, una scuola di musica e gli spazi per il doposcuola, nonché la cooperativa con i suoi corsi di formazione professionale.

È possibile dire che qualcosa è cambiato a Scampia, ma si continua a risentire della mancanza di lavoro.

Proprio per questo negli anni è stato essenziale mostrare la nostra presenza anche in carcere, assistendo le famiglie dei detenuti e organizzando attività e corsi di formazione dentro Poggioreale e Secondigliano. Tutto questo è stato ispirato dalla convinzione che la direzione della missione della Compagnia fosse questa. L’impegno apostolico deve infatti comprendere la promozione culturale, la formazione al lavoro, la presenza sociale e un’azione pastorale rivolta soprattutto ai più poveri e agli ultimi.

Vele Scampia intervista padre Valletti

A Scampia la realizzazione di questo progetto è stata favorita dall’inserzione dei gesuiti nel tessuto sociale, cioè dalla loro presenza in mezzo alla gente (infatti vivono in un appartamento). Al momento questo modello pastorale, ispirato da p. Arrupe, sta vivendo un periodo di crisi dato dalla mancanza di gesuiti giovani. Tuttavia ogni estate circa duecento ragazzi da tutta Italia vengono a vivere almeno una settimana di servizio, facendo il «gioco del canguro», cioè occupandosi di un bambino nel corso dell’intera giornata come se si fosse un canguro che tiene il proprio cucciolo nel marsupio. Sono esperienze che segnano la vita di una persona.

Parla molto spesso di attività di servizio, soprattutto riguardanti i giovani. Quanto crede sia importante fare esperienze di questo tipo all’interno di un percorso di fede?

Gesù dice ai suoi «Siete venuti per servire». Il problema, oggi, è che spesso i giovani non trovano da parte della Chiesa una rispondenza al loro entusiasmo, situazione da cui deriva una fede tiepida. Chiunque ami servire è però cristiano, purché il servizio punti a restituire bellezza a chi non ce l’ha e a restituire dignità a chi ne è stato privato. Per questo è prioritario il servizio ai poveri. Troppe associazioni cattoliche usano il proprio ombelico come obiettivo di vita, sono autoreferenziali, quando bisognerebbe invece realizzare un processo culturale: non basta dar da mangiare, bisogna anche dare la ragione.

In Fratelli tutti, papa Francesco dice che il samaritano che soccorre l’infelice fa un’azione di tipo politico portandolo alla locanda: non solo lo aiuta e lo cura, ma investe del denaro in modo che egli possa tornare a camminare da solo. La locanda rappresenta la struttura politica. Questa è espressione della dignità dell’uomo, che nel Salmo 8 è poco meno di Dio, di onore e gloria coronato, tutto è posto sotto i suoi piedi – vedi? Si torna sempre ai piedi…

Padre Valletti, in nessuna intervista sarebbe semplice parlare dei rapporti tra Chiesa e Stato, perché spesso la Chiesa opera laddove lo Stato latita: quanto è giusto tutto questo? In che modo queste due entità dovrebbero relazionarsi?

Si tratta di uno degli aspetti che ho maggiormente sperimentato nel corso della mia vita, non limitandomi a essere uomo di Chiesa, ma intraprendendo le strade dell’insegnamento nella scuola pubblica e della militanza sindacale, perché ho ritenuto che la vera struttura portante della società non fosse la Chiesa ma l’istituzione pubblica. Dove quest’ultima, per ragioni di parte, manca, è necessario collaborare con lo Stato per piantare qualcosa che sia un bene comune. L’insegnamento, le attività con la Cgil e altri sindacati, la fondazione dell’università popolare con Imbeni, sindaco di Bologna, la missione in Mali con gli scout. Queste mie relazioni coi comunisti hanno suscitato il disappunto del cardinale di Bologna, ma per me azione politica significava che ci doveva essere un’istituzione pubblica che fosse per tutti.

Lo Stato è l’incontro di tutti i cittadini. La missione del gesuita deve essere orientata in questo senso, deve cioè aiutare lo Stato a promuovere il bene comune, a rientrare nei suoi doveri. Spesso è la Chiesa stessa a dimenticare questa dimensione, e chi è laico non si sente accolto o non ci si riconosce. Anche all’interno della Chiesa è quindi possibile far politica di tipo ecclesiale.

Ora che ha lasciato la sua attività a Scampia per venire qui a Roma, cosa prevede di fare? Quali sono i suoi programmi, desideri e prospettive future?

Voglio vivere da vecchio, felice. Non posso più andare in giro, prendere l’aereo, camminare con lo zaino sulle spalle e stare in tenda. Non ho scelto io di venire qui, ma è stata una bella idea da parte dei miei superiori, perché questa comunità è davvero un porto di mare; ogni giorno assisto tra le quindici e le venti persone di tutta Italia, che mi cercano perché hanno bisogno di qualche tipo d’aiuto. Ho anche ripreso contatti con la mia famiglia, dal momento che ho cinque sorelle, quindici nipoti e venticinque pronipoti. Seguo un gruppo di ex-alunni del Massimo, con cui avevo fatto attività di scout, che continuano a supportare le attività di Scampia. Sono andato in pensione con le attività, perché i piedi funzionano ormai poco, però il cuore e la testa funzionano ancora, quindi non mi fermo mai davvero.

5 pensieri riguardo “INTERVISTA A PADRE FABRIZIO VALLETTI

  • Grazie alla possibilità di scrivere un pensiero che mi ha fatto piacere incontrare Fabrizio Valletti, per me è come aver fatto un incontro con luce solare dei miei tempi oratorio salesiani, essendo ancora impegnato con volontari qui in Scampia anziani, posso confermare il mio faro e Compagno di vita cristiana.

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    • Grazie per la testimonianza Francesco.

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  • Sandro Pieraccini

    Ciao Fabrizio mi piacerebbe riincontrarti dopo tantissimi anni quando eri a Barberio M.llo …..e che gite abbiamo fatto Polonia e Cecoslovacchia GRAZIE PER TUTTO QUELLO CHE HAI FATTO PER NOI I QUEGLI ANNI …… un abbraccio e se vuoi mi piacerebbe incontrarti !!!!!

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    • Grazie, trasmetteremo questo messaggio a padre Valletti :))

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  • Leonardo Parigi

    Ciao Fabrizio,ti ricordi la scuola serale dello Stensen?
    Ti rivedrei volentieri,ne sono successe di cose, per tutti…
    Chissà, ora che sei più vicino…
    Un abbraccio forte,
    Leonardo Parigi

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